Le sbarre per scelta

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Susanna, Maria, Barbara, Rossella e Vincenza. Tutte donne di mezza età, tutte con un ergastolo sulle spalle. Sono le ultime cinque brigatiste. Rinchiuse nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Latina, potrebbero vivere in semilibertà, usufruire di permessi e benefici e percorrere la strada del pentitismo che, nel tempo, più o meno convenientemente, hanno perseguito tanti dei protagonisti della lotta armata degli anni di piombo.

Già dal 1987, infatti, l’esperienza delle Brigate Rosse poteva considerarsi terminata e a dirlo erano gli stessi protagonisti del movimento. In quell’anno Renato Curcio, Mario Moretti e Barbara Balzerani – tra i leader storici delle Brigate Rosse – rilasciavano un’intervista al giornalista Rai Ennio Remondino dichiarando di fatto conclusa l’esperienza della lotta armata in Italia. «Il periodo che abbiamo vissuto finora è finito, è esaurito oggettivamente», diceva Moretti, tra i responsabili della pianificazione e dell’esecuzione del rapimento Moro. «Come ci siamo assunti la responsabilità di aprire un discorso di lotta armata, così ci assumiamo la responsabilità di considerare questo periodo e questa storia chiusi», gli faceva eco Renato Curcio, tra i fondatori delle Br. Come loro, tanti i pentiti tra gli interpreti del terrorismo nostrano. Susanna Berardi, Maria Cappello, Barbara Fabrizi, Rossella Lupo e Vincenza Vaccaro oggi rappresentano, invece, un’anomalia alla dolorosa parentesi antisistema brigatista.


Avrebbero potuto scegliere di collaborare, le ultime cinque brigatiste; avrebbero potuto avviarsi verso la metabolizzazione della fine di un’epoca e deporre le armi. E invece no: irremovibili optano, ancora oggi, per la loro cella fredda e rifiutano la contaminazione del mondo esterno, di quello “Stato borghese” che hanno combattuto per una vita intera. Anche da dietro le sbarre. Perché la lotta armata non è mai finita e arrendersi è la più grande sconfitta, per loro.

Le chiamano le “irriducibili”, Massimo Lugli e Clemente Pistilli, in un articolo su La Repubblica che racconta la storia di cinque “compagne” rimaste aggrappate ai valori scoloriti della lotta armata, quelli impregnati di fedeltà e macchiati di sangue. Nessun rimpianto, nessun pentimento. È un voto, quello delle brigatiste, che dura da quasi trent’anni. Hanno scelto di vivere in una bolla, devote alla ideologia rossa antisistema degli anni più crudi del nostro Paese, convinte di potercela fare ancora. A confermarlo, all’indomani dell’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, nel 1999, i fogli di carta velina contenenti le bozze della rivendicazione dell’omicidio nascosti tra le pagine di libri e riviste nella cella di una delle detenute, Maria Cappello.

Un’anomalia, quella delle cinque di non rinunciare all’ideologia, che si accompagna a quell’anomalia più grande di vedere il carcere come oasi, rifugio. Forse fedeli alla linea, forse terrorizzate dall’idea di dover guardare in faccia la realtà e ammettere di aver perso, schiacciate sotto il peso di quella linea stessa.

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